Intervento di Mariangela Bastico
Ringrazio il PD della Sicilia e Mila Spicola per l’invito che mi hanno rivolto e soprattutto per avere organizzato una tre giorni di riflessione e di confronto sulla scuola, in un momento in cui sono particolarmente necessari. Queste giornate vengono, inoltre, a ridosso di annunci sulla stampa fatti dal governo, attraverso un intervento del Sottosegretario Reggi, che domani parteciperà ai nostri lavori.
Annunci di cambiamenti importanti, attinenti all’orario di lavoro dei docenti, alla loro retribuzione e alla loro valutazione. Un nuovo stress, un nuovo colpo per la scuola, che da troppi anni sta vivendo di riforme approvate, ma mai entrate in vigore, di riforme annunciate, di riforme finalizzate esclusivamente ad attuare tagli: continui stop and go, incertezze, minacce, che certamente non giovano al ruolo educativo, che deve essere svolto con serenità dai docenti. Ora la scuola è immobile, in una condizione di ansia e di angoscia; ha bisogno di certezze e di percorsi ben individuati.
Siamo tutti consapevoli che la scuola deve cambiare, in profondità; ma questo può avvenire soltanto se le riforme vengono affrontate “dal verso giusto”: non si deve partire dagli aspetti organizzativi, dall’orario di lavoro degli insegnanti – magari sottintendendo il giudizio che lavorano troppo poco -, ma dal progetto educativo per i giovani che vivono nella società della comunicazione e della conoscenza. Progetto che, basandosi sui profondi cambiamenti nella società, nelle famiglie, sugli effetti della diffusione delle nuove tecnologie, sulle diversità culturali, etniche e religiose sempre più presenti nel nostro Paese, deve avere come obiettivo la scuola che vogliamo realizzare, le sue finalità educative e di istruzione.
Per questo occorre un grande dibattito nazionale sulla scuola, come è avvenuto in tanti altri paesi che hanno realizzato riforme importanti, quali la Francia, la Finlandia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti; un dibattito che veda protagonisti, oltre al mondo della scuola, le università, gli intellettuali, le parti sociali e il mondo del lavoro, la politica, le istituzioni e le autonomie locali e che tolga la scuola dal cono d’ombra nel quale è stata relegata.
La scuola dell’autonomia, con i suoi insegnanti, dirigenti, ATA, ha fatto moltissimo per affrontare i cambiamenti sociali e culturali, per offrire qualità educativa ai ragazzi che, sempre più diversi e provenienti da diversissime realtà familiari, sono entrati nelle scuole, con le loro difficoltà, i disagi, con le loro grandi risorse. La scuola ha fatto tanto; ha innovato, sperimentato. A lei sola dobbiamo la qualità che ancora offre. Ma ora è arrivata al punto limite. Ha bisogno di avere al suo fianco la società, la politica, lo Stato. Ha bisogno di essere riportata al centro della riflessione, di non essere più considerata il settore della pubblica amministrazione da cui tagliare risorse da destinare ad altre funzioni.
Il “verso giusto” da cui partire per il cambiamento è ridefinire “la missione”, l’obiettivo strategico della scuola.
Cerchiamo di chiarire, anche in modo un po’ didattico, che cosa significa tutto ciò.
La scuola italiana ha avuto, in varie fasi della sua storia, obiettivi chiari e ben definiti, che, in linea di massima, ha perseguito e raggiunto.
Partiamo dalla legge Casati del 1859, istitutiva della scuola italiana quale fondamento e cardine dello stato nazionale unitario. Alla scuola ha assegnato il compito di insegnare e diffondere una lingua e una cultura comuni, di fare uscire milioni di persone da una condizione di totale analfabetismo, in una parola di fare gli italiani. Una missione sostanzialmente conseguita, per la quale sono state assegnate adeguate risorse.
Nel periodo fascista, il regime totalitario ha utilizzato la scuola per diffondere la propria ideologia, per formare i giovani balilla ad atteggiamenti militareschi, per selezionare una propria classe dirigente. L’adozione di un unico libro, il libro di testo, nella scuola elementare è stato uno strumento molto efficace per conseguire questi obiettivi, così come la riforma Gentile della scuola superiore. Ad essa, in particolare al liceo classico, è stata affidata una missione molto chiara, quella di preparare e di selezionare la classe dirigente dello Stato unitario, in particolare per l’agricoltura, per le libere professioni e per la pubblica amministrazione. I licei soltanto erano scuole dello Stato, mentre gli istituti tecnici e professionali, che dovevano preparare i tecnici per la nascente industria, erano dei Comuni. È evidente qui l’origine della strutturazione “gerarchica” della scuola superiore, dove i licei, soprattutto il classico, sono considerati scuole di serie A, mentre i tecnici scuole di serie B e i professionali a calare. Ancora oggi questa scala gerarchica permane ed è largamente percepita dalla scuola stessa e dalle famiglie.
Molto ampia, nell’ambito della Assemblea Costituente, è stata la discussione intorno alla scuola, nella consapevolezza che essa dovesse essere elemento fondante della nuova Repubblica. Nella Commissione competente si sono confrontate due visioni molto diverse di scuola: quella di impianto comunista e socialista, sostenuta da Costantino Mortati e quella di matrice cattolica-sociale sostenuta da Aldo Moro; da un lato la scuola pubblica, statale, obbligatoria per almeno 8 anni, dall’altro la scuola radicata nei territori, dei Comuni, anche gestita da privati e confessionale. Gli art. 33 e 34 della Costituzione costituiscono il punto di mediazione alta delle diverse visioni culturali. Ma è soprattutto l’art. 3, secondo comma, laddove indica che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale e culturale che, di fatto, limitano l’effettiva uguaglianza dei cittadini, che indica la missione fondamentale della scuola italiana, quale strumento essenziale per garantire pari opportunità ad ogni persona, colmando le differenze e gli svantaggi di partenza di alcuni rispetto ad altri.
La Costituzione, non limitandosi ad enunciare il principio di uguaglianza formale davanti alla legge, stabilisce che la Repubblica, cioè lo Stato nelle sue varie articolazioni, le Regioni e le autonomie locali, hanno il compito di rimuovere le condizioni di diseguaglianza, dando di più a chi è in condizioni di maggiore difficoltà. Per la scuola questo significa che non dovrà concentrare il suo impegno di istruzione sui ragazzi che già sanno, ma soprattutto su coloro che, al di fuori della stessa, non hanno altre opportunità per imparare. La scuola non deve essere, come ci ricorda don Milani, un ospedale che accoglie i sani e che caccia fuori gli ammalati.
Il mandato costituzionale ha trovato attuazione in una serie di provvedimenti legislativi, a cominciare dalla istituzione della scuola media unica, con legge del 1962. Questa importantissima legge attua il principio costituzionale dell’obbligo di istruzione per almeno 8 anni e toglie la divisione precoce nei percorsi formativi dei bambini che a 10 anni dovevano scegliere tra la scuola media, che avrebbe aperto la strada alla scuola superiore e all’università, e l’avviamento professionale, che nella quasi totalità dei casi conduceva in pochissimo tempo al lavoro. Molti poi, già dopo la quinta elementare (e molti anche dopo la seconda), lasciavano la scuola. Una scuola che aveva in sé una serie di balzelli: l’esame di seconda elementare, due esami – uno di fine corso ed uno di ammissione – in quinta elementare (proprio perché allora era un ciclo terminale), uno in terza media. Una vera e propria corsa ad ostacoli, dove i più deboli erano destinati a cadere molto presto, abbandonando il percorso.
In applicazione delle norme costituzionali, dalla metà degli anni ’60, il Parlamento approva alcune importanti riforme, quali l’introduzione della scuola d’infanzia statale, con le relative indicazioni, l’introduzione del tempo pieno nella scuola elementare, l‘inserimento dei bambini disabili nelle classi in ogni ordine e grado di scuola, con legge del 1977, con la chiusura degli istituti speciali.
Sono leggi che aprono la scuola alle diversità, che la inducono a percorsi di istruzione che si differenziano e si personalizzano. La scuola deve accompagnare i ragazzi dalla prima infanzia, incominciando da lì a colmare le differenze di partenza, con un sostegno particolare ai bambini con maggiori difficoltà.
Queste riforme nascono dal basso, da progetti e sperimentazioni costruite dapprima nei territori e poi estese a livello nazionale. Personalmente ho preso parte direttamente a questi percorsi, come genitore, insegnante e poi amministratrice in Emilia-Romagna; esperienze che hanno visti impegnati in una progettualità e in una crescita comuni insegnanti, amministrazioni locali, pedagogisti di grande valore, quali Sergio Neri, Loris Malaguzzi, Bruno Ciari, che nei territori di Modena, Reggio-Emilia, Bologna si sono misurati su questi progetti innovativi, non chiudendosi mai nelle più “sicure” aule delle Università, ma sperimentando e accompagnando le esperienze con la formazione e la valutazione. Partecipazione, formazione, verifiche frequenti sono stati gli elementi essenziali di queste esperienze innovative: un riformismo che parte da una cultura pedagogica e da un progetto educativo, che viene sperimentato e valutato, un riformismo che produce cambiamenti reali, non annunci di cambiamento, accompagnati da condivisione, partecipazione e controllo sociale. La scuola così è realmente cambiata e le leggi nazionali che hanno raccolto e messo a norma queste innovazioni sono state costruite su fondamenta solide. L’esatto contrario di quello che accade quando le norme sono calate dall’alto e percepite come gabbie, come imposizioni non comprese nelle loro finalità.
Sono gli anni in cui, a seguito della contrattazione sindacale, vengono introdotte le 150 ore per gli studenti lavoratori e vengono per gli stessi istituiti i corsi serali. Questi hanno il limite di non riconoscere alcuna specificità alla formazione degli adulti rispetto a quella dei ragazzi: sono corsi, infatti, del tutto uguali a quelli diurni, nei contenuti, negli orari e nella durata, senza alcun riconoscimento di crediti formativi e di specificità. Pur con questi limiti, la scuola riconosce il diritto ad ogni adulto di riprendere un percorso di istruzione, di recuperare quanto non ha potuto imparare nella giovinezza.
È importante ricordare questi eventi, perché a volte, quando si parla di riformismo dal basso sembra di descrivere un’utopia. In verità questo riformismo è stato praticato e ha condotto a risultati molto positivi.
Dobbiamo, quindi, chiederci che cosa e dove si è bloccato il percorso delle riforme: la riforma mancata è quella della scuola media superiore.
Il primo progetto di legge organico di riforma della superiore, con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni, è del 1972, di cui è primo firmatario Marino Raicich, responsabile scuola del PCI. A questo hanno fatto seguito tanti altri progetti di legge, il cui iter parlamentare si è avviato e presto bloccato. Sulla scuola e sulla riforma della scuola superiore sono caduti vari governi; e questo segnala l’importanza che il tema rivestiva nel dibattito politico, cosa che ora è ben lungi dall’accadere.
Cresce via via la consapevolezza che la riforma della superiore non si riuscirà ad approvare; per questo la Ministro dell’Istruzione Franca Falcucci, nel 1986, a seguito di un dibattito parlamentare, annuncia di voler fare per via amministrativa ciò che non è stato realizzato per via parlamentare, dando l’avvio ad una serie di sperimentazioni nelle scuole superiori per favorire il cambiamento dall’interno delle stesse. Ha così inizio la fase delle sperimentazioni Brocca, dal nome del presidente della Commissione che ha impostato, autorizzato e verificato queste sperimentazioni, dapprima sull’istruzione tecnica e professionale e successivamente sui licei. Queste esperienze hanno determinato innovazioni interessanti, ma, non essendo supportate da norme di legge, avrebbero potuto essere cancellate con grande facilità. Così è accaduto con la cosiddetta riforma Gelmini, che, di colpo, senza alcuna verifica della qualità e dell’efficacia, ha cancellato tutte le sperimentazioni Brocca. Queste hanno, è vero, portato ad un eccesso di frammentazione nella scuola superiore (basti pensare che nel 2006, anno in cui ho scelto come Viceministro le prove degli esami di maturità, ho dovuto individuare 689 seconde prove, in corrispondenza di altrettanti diversi corsi), ma hanno realizzato innovazioni interessanti, tali da costituire una base sperimentata per una riforma più strutturale. Nessuna valutazione da parte del Ministro Gelmini è stata attuata sulle sperimentazioni Brocca, dimostrando la determinazione di non voler valorizzare le innovazioni dal basso, dall’interno delle scuole.
Con il primo Governo Prodi si avvia, con il Ministro Berlinguer, la fase delle riforme organiche dell’intero sistema di istruzione, che, come ben sapete, pur essendo approvate, non hanno mai avuto pratica attuazione. Ritengo sia giunto il momento anche di svolgere alcune riflessioni autocritiche sugli atteggiamenti tenuti a livello politico e sindacale sulle riforme volute dal Ministro Berlinguer, dotate di un impianto strutturale che ancora oggi dimostra solidità e forza, a partire dall’introduzione dell’autonomia scolastica, nonostante alcuni limiti, quali ad esempio l’innalzamento dell’obbligo di istruzione di un solo anno.
Il Ministro Moratti, con il secondo governo Berlusconi, abroga completamente la riforma Berlinguer e definisce una nuova riforma organica, che prevede la liceizzazione di tutta la scuola superiore e l’abbassamento dell’obbligo di istruzione ai 13 anni, in corrispondenza agli 8 anni di scuola obbligatoria. La riforma viene approvata con legge delega n. 53/2003, in applicazione della quale vengono approvati alcuni decreti, che non verranno mai applicati. E così si avvia la fase delle riforme approvate, ma non applicate, alimentando il senso di incertezza e di continua fibrillazione all’interno delle scuole.
Con il secondo Governo Prodi, e con il Ministro Fioroni, le parti non condivisibili della legge Moratti devono essere “smontate con il cacciavite”, secondo la definizione del Presidente del Consiglio, per sostituirle con norme migliori: con questa modalità, nella legge finanziaria 2007 viene innalzato l’obbligo di istruzione a 16 anni e approvate norme per valorizzare l’autonomia scolastica, vengono ripristinati gli istituti tecnici e professionali, approvate le indicazioni per il primo ciclo sulla base delle elaborazioni della Commissione presieduta dal Prof. Mauro Ceruti; viene approvato il piano di stabilizzazione di 150.000 docenti e 30.000 ATA, attuato solo nella prima tranche. Il “cacciavite” è una tecnica necessaria, data la maggioranza al Senato di un solo parlamentare (che presto cambia schieramento), che dà esiti positivi, ma non permette alcuna chiarezza del quadro complessivo. E le riforme riescono a produrre solo in modo parziale i loro effetti, data la breve durata del secondo Governo Prodi e le immediate modifiche introdotte dal nuovo Governo Berlusconi. Non vorrei usare il termine riforma per i cambiamenti, purtroppo numerosi ed incisivi introdotti dal ministro Gelmini, in applicazione ai tagli insostenibili voluti dal ministro Tremonti ed approvati nella cosiddetta finanziaria estiva, nell’agosto del 2008: 8 miliardi di euro tolti alla scuola in tre anni, con il taglio di 132.000 docenti ed Ata.
Non mi addentro ulteriormente nelle più recenti vicende, in cui nessun processo di riforma è stato avviato dai Ministri Profumo e Carrozza. Sulle determinazioni dell’attuale governo sentiremo direttamente il sottosegretario.
Di fatto, dall’inizio degli anni ’70, è mancata la riforma della scuola superiore, che, attraverso l’innalzamento dell’obbligo di istruzione e l’introduzione di un biennio unitario (non unico), avrebbe portato anche a cambiamenti nella scuola media. Quella riforma che avrebbe dovuto consentire che effettivamente la scuola fosse aperta a tutti, che si realizzasse la scuola di massa, che si era profilata alla fine degli anni ’60, in grado di elevare i saperi e le competenze di tutti i giovani, compensando i diversi livelli di partenza: la scuola del “non uno di meno”, che accompagna tutti i ragazzi, tutti e non uno di meno, ad acquisire le conoscenze e le competenze essenziali per diventare cittadini consapevoli e per affrontare il lavoro.
La non approvazione della riforma della superiore e le sue conseguenze costituiscono la “missione incompiuta” della nostra scuola.
La domanda da porci ora è se la politica, il Parlamento, il mondo della cultura, la società tutta hanno affidato la missione del “non lasciare indietro nessuno” alla scuola. Io ritengo di no; penso quindi che questa missione non sia stata incompiuta, ma non sia stata affidata alla scuola, che non è stata dotata degli obiettivi, delle risorse, degli strumenti necessari per conseguirla.
Da anni la scuola sembra non essere una priorità per la politica, è messa al margine; giudizio che non va generalizzato, tenendo chiare le distinzioni tra centro-destra e centro-sinistra, che sono state, in questi ultimi venti anni, molto evidenti. Sulla scuola complessivamente non si è investito, ma, al contrario, si sono tagliate in modo insostenibile le risorse; la scuola è stata ripetutamente denigrata insieme con coloro che vi lavorano; le riforme sono state calate dall’alto e inattuate.
È quindi necessario ripartire dal ridefinire la missione della scuola, dal ridare ad essa centralità, attuando i cambiamenti necessari a realizzare una scuola pubblica di qualità e inclusiva.
Come si può concretamente realizzare tutto ciò? Concretamente, perché la scuola non può più accettare annunci privi di realizzazione.
Ritengo che non ci siano oggi le condizioni per una riforma organica del sistema nazionale di istruzione: sarebbe un percorso lungo, complesso, con molte probabilità di non giungere ad una conclusione o di non entrare in vigore, un percorso che lascerebbe ancora a lungo la scuola in una condizione di incertezza.
Il primo impegno che dovrebbe realizzare, a mio avviso, il ministero dell’Istruzione, ben prima di ogni ragionamento sull’orario di lavoro degli insegnanti, è la definizione degli obiettivi di apprendimento, in termini di conoscenze e di competenze, che devono essere conseguiti da tutti i ragazzi nelle varie fasi del percorso scolastico. Si tratta degli obiettivi essenziali, da raggiungere in quinta elementare, al termine della scuola media, nei due anni di istruzione superiore obbligatoria, suddivisi per aree di apprendimento, quali l’area linguistica, l’area logico-matematica, l’area storico-geografica, l’area delle scienze naturali… Con il Ministro Fioroni, in relazione all’obbligo di istruzione, erano state individuate 5 diverse aree di apprendimento. Si possono definire anche altre suddivisioni, con l’avvertenza di non eccedere nella frammentazione.
Definire gli obiettivi d’istruzione significa stabilire gli innovati compiti della scuola nell’attuale società della conoscenza, caratterizzata dalla diffusione delle nuove tecnologie e da una grande frammentazione e diversificazione. È un percorso che deve essere accompagnato da un ampio dibattito nazionale, con il contributo importante delle Università, degli intellettuali, del mondo della cultura. Viene da chiedersi perché in Italia questi soggetti non si occupino di fatto del futuro della scuola. Salvo eccezioni – e non è mai bello generalizzare – ho letto interventi sulla scuola di oggi di autorevoli commentatori che spesso si limitano a rievocare le proprie esperienze scolastiche, ricordando la scuola del “bel tempo antico”, con i conseguenti richiami al rigore e alla serietà. Riflessioni che, anche se vere, sono del tutto inadeguate per affrontate il tema di come la scuola deve modificarsi nell’attuale contesto sociale e culturale, per svolgere il proprio compito di far crescere ed apprendere tutti i bambini, per dare ad ognuno una propria opportunità di futuro.
Per conseguire i livelli essenziali degli apprendimenti, definiti su base nazionale attraverso i curricula, sia nel percorso dell’obbligo di istruzione fino a 16 anni, sia nel percorso della scuola superiore, le scuole, nell’ambito della propria autonomia didattica (e questo è il significato principale dell’autonomia scolastica), sperimentano innovazioni didattiche, sviluppano il proprio piano dell’offerta formativa (POF), al fine di fare raggiungere, pur con modalità diverse, gli stessi obiettivi di conoscenze e di competenze a tutti i ragazzi, che nella scuola portano enormi diversità sociali e culturali. Mentre la scuola nel passato ha utilizzato metodi omogenei, che dovevano valere per tutti gli studenti anche per renderli più uguali tra di loro, oggi deve decisamente misurarsi sulle diversità, non per annullarle, ma per valorizzarle attraverso il conseguimento di conoscenze e competenze. In una società nella quale le informazioni sono “a portata di mano” per molti la scuola deve accentuare gli obiettivi educativi, di crescita armonica, le capacità di relazione e di condivisione.
Per tutto ciò è necessario superare, a partire dalla scuola media, un eccesso di frammentazione disciplinare. Pensiamo ad insegnanti che hanno 2 ore di insegnamento per classe e che sommano quindi 9 classi. È pressoché impossibile per loro dar vita alle innovazioni metodologiche e didattiche di cui parlavamo. Per queste, infatti, sono necessari un tempo disteso e una collaborazione tra più docenti non solo nella fase della progettazione, ma anche nell’attuazione attraverso le compresenze, attraverso una didattica fuori dall’aula, attraverso la suddivisione della classe. Queste modalità innovative comportano scelte organizzative conseguenti, nella definizione delle classi di concorso e degli insegnamenti, nei vincoli volti a garantire la continuità didattica, nell’orario dei docenti e nell’attribuzione dell’organico funzionale di scuola o di rete. Penso che la realizzazione di dipartimenti all’interno di ogni scuola sia uno strumento valido per la definizione di percorsi coordinati, per favorire le relazioni tra docenti, le sperimentazioni e la valutazione delle stesse. Uno strumento importante, che colma un divario troppo ampio tra la figura monocratica del dirigente scolastico e l’organo collegiale ampio e diversificato che è il collegio dei docenti. Ovviamente su tutto ciò occorrono riflessioni approfondite, ma mi preme qui ribadire che le necessarie innovazioni organizzative devono essere conseguenti agli obiettivi di innovazione didattica e finalizzate alla missione strategica della scuola.
Le scuole nella loro autonomia, in questi anni, hanno sperimentato tanto, affrontando da sole i numerosi problemi che sono loro giunti, tra cui il crescente disagio sociale delle famiglie e dei ragazzi, le nuove e vecchie povertà, l’immissione di ragazzi stranieri di diverse lingue, culture e religioni.
Alcune sperimentazioni sono molto belle ed interessanti, altre meno: è fondamentale che tutte siano valutate scientificamente e che quelle che hanno prodotto esiti positivi siano pubblicate e rese trasmissibili per essere avviate in altre scuole, pur tenendo conto delle specificità di ognuna.
Deve essere una struttura nazionale a svolgere questa funzione; doveva essere l’INDIRE? È necessario che faccia di più e meglio; è necessario che le scuole abbiano a disposizione un tempo per riflettere sulle proprie sperimentazioni, per fare una prima autovalutazione e per renderle trasmissibili. Ma gli insegnanti sono troppo oberati dalla propria attività, per avere questo tempo, per uscire da una pressante quotidianità di lavoro; occorre ragionare sull’organico funzionale e sull’orario, alla luce di questo obiettivo: rendere le sperimentazioni già effettuate, quelle che hanno dato buoni risultati, una base scientificamente valida per riformare la scuola dall’interno, dal basso, così come è accaduto nel passato.
Proporre la riforma dall’interno non significa scaricare sulle autonomie scolastiche i problemi. La scuola da sola ha fatto moltissimo, attraverso un competente ed appassionato impegno di docenti, dirigenti e personale ATA. È quasi impossibile da credere: nonostante i tagli feroci, nonostante il discredito che i Ministri dell’Istruzione, penso a Moratti e Gelmini, hanno gettato sul personale della scuola (ricordate, gli insegnanti “fannulloni”?), la scuola ha tenuto, mantenendo una buona qualità, in modo abbastanza diffuso; ha tenuto, affrontando con strumenti propri i sempre più complessi problemi. Penso, però, che si sia giunti al punto limite. Da sola, infatti, la scuola non può fare di più e non so per quanto ancora possa resistere. Ora è indispensabile un forte investimento in termini di risorse e di attenzione da parte dello Stato e della società. Per questo, oggi, meno che mai, il governo non può partire dal verso sbagliato.
Ritornando alle innovazioni didattiche e ai cambiamenti necessari, è utile riferirsi alle indicazioni per il primo ciclo, quelle scaturite dalla Commissione presieduta dal Prof. Mauro Ceruti, quelle a cui il Ministro Gelmini non ha mai dato attuazione. Faccio solo alcuni cenni, nella consapevolezza che molti di voi hanno esperienze assai significative in questa direzione, che possono illustrare meglio di me.
Negli apprendimenti e nella crescita dei ragazzi va valorizzata la relazionalità sia tra i pari sia tra adulti e ragazzi. La scuola è una comunità educante, nella quale si incontrano e dialogano con regolarità e continuità generazioni diverse; è un’esperienza di vita, dove si intrecciano apprendimenti formali ed informali, determinati da un complesso di relazioni (studenti-docenti, studenti-studenti) essenziali per la crescita.
Essenziale per l’apprendimento è l’emozionalità: sappiamo, ad esempio, quanto grande sia il valore del “testimone” nell’apprendimento di vicende storiche e sociali, quanto importante sia la relazione affettiva che si instaura tra docente, studente, gruppo dei ragazzi ed oggetto/i dell’apprendimento. La musica è, in tutto ciò, uno strumento fondamentale di emozioni, condivisioni, per creare relazioni e saper lavorare in gruppo.
Aprire la scuola al di fuori della scuola, utilizzando luoghi diversi per l’apprendimento, imparando a conoscere i luoghi della propria città e del territorio, le piazze, gli edifici, i musei, i luoghi dello sport, i luoghi del lavoro. Conosco varie esperienze, tra cui quella di Modena, che è la mia città, in cui sono stati costruiti, in collaborazione tra enti locali e scuole, “percorsi scuola-città”, dove le tante opportunità del territorio vengono messe a disposizione delle scuole.
Per le superiori sono importanti anche i percorsi di alternanza scuola-lavoro, gli stage, se condotti con adeguata supervisione.
Nella didattica di oggi debbono entrare maggiormente le immagini, tenendo conto che i ragazzi vivono nella società dell’immagine e che le nuove tecnologie ne hanno potenziato al massimo la diffusione. La scuola superiore, penso in particolare ai licei ma non solo, ancora oggi utilizza in via prevalente la trasmissione verbale, attraverso la parola parlata. Si avvale, attraverso la lezione frontale, in cui la passività di chi ascolta è evidente, del metodo logico-deduttivo: “enuncio una teoria, un postulato e poi ti spiego, attraverso una successione di ragionamenti logici, perché è vero”. È evidente che questo metodo costituisce un elemento di selezione fortissima: solo i ragazzi che appartengono a certe famiglie, nelle quali la parola e i libri e altri strumenti di conoscenza sono una presenza rilevante, solo ragazzi che hanno un determinato tipo di intelligenza teorica e logica potranno avere successo in questo contesto didattico. Per altri, dotati di intelligenze diverse, pratiche, intuitive, che apprendono attraverso l’esperienza, il loro protagonismo, ebbene per questi ragazzi inizieranno gli insuccessi, le bocciature, gli abbandoni.
Molto, l’ho già sottolineato, è cambiato nelle scuole attraverso le sperimentazioni e le innovazioni attivate dalle autonomie scolastiche.
Per sostenere i cambiamenti è necessaria la formazione in servizio, obbligatoria e riconosciuta, una formazione che parta dai problemi e dalle esperienze realizzate nelle scuole, che non sia di tipo teorico e magari fatta da studiosi che, pur bravissimi, della scuola non hanno alcuna esperienza. Certamente le competenze esterne sono necessarie, per una supervisione sulle innovazioni, sui problemi e sulle soluzioni proposte.
Per conseguire l’obiettivo di una scuola che non lasci indietro nessuno è necessario un percorso che parta dalla primissima infanzia, perché sappiamo che sono decisive per i rendimenti scolastici le diverse condizioni di carattere familiare e sociale. Da uno studio dell’OCSE si ricava che in Italia il differenziale negli apprendimenti dei ragazzi è determinato per il 52% da fattori esterni alla scuola, cioè dalle diverse condizioni di partenza, sociali e culturali, che non vengono compensate dalla stessa. La media europea è il 33%, mentre ci sono paesi come la Finlandia in cui i fattori esterni condizionano pochissimo il differenziale di rendimento scolastico, il che significa che quella scuola è stata in grado di ridurre in modo considerevole i divari di partenza, che ovviamente esistono in ogni contesto sociale.
Un percorso scolastico che riduca i divari deve partire dalla primissima infanzia: l’obiettivo europeo di almeno il 33% di bambini che frequentano gli asili nido deve essere conseguito anche in Italia. La scuola dell’infanzia, a tempo pieno, deve essere generalizzata per tutti i bambini dai 3 ai 6 anni; è necessario estendere il tempo pieno nelle scuole elementari ed il tempo prolungato nelle scuole medie. Per stare all’attualità, mi sembra assurdo proporre scuole aperte fino alle 22 di sera, mentre ci sono Regioni, come la Sicilia e non solo, dove il tempo pieno costituisce una rarità. È vero, per realizzarlo sono necessari insegnanti, per garantire compresenze ed innovazioni didattiche, ma occorrono anche spazi interni ed esterni alla scuola, mense, opportunità offerte dal territorio; non è sufficiente allungare l’orario. E questo coinvolge non solo il Ministero dell’Istruzione, ma anche Regione e Comuni.
Per la scuola media è necessario, a mio avviso, ridurre la frammentazione disciplinare, aggregando le discipline per aree di apprendimento e introducendo innovazioni nella didattica. La riforma della scuola media dovrà essere elaborata in relazione all’introduzione dell’obbligo di istruzione in corrispondenza del biennio unitario della scuola superiore. Occorre ragionare in una continuità verticale, che può favorire percorsi distesi per i ragazzi.
In relazione all’obiettivo della continuità verticale sono favorevole alla diffusione degli istituti comprensivi. So bene che essi non sono la garanzia della collaborazione tra docenti e tra vari segmenti di scuola, ma sicuramente introducono stimoli ed opportunità in direzione della continuità dei percorsi. So anche che è necessario fare distinzioni tra un istituto comprensivo, che include scuola dell’infanzia, elementare e media e che coincide con il territorio di un Comune, rispetto ad un istituto comprensivo collocato in una grande città. Nel primo caso si possono valorizzare le sinergie tra scuola e soggetti sociali ed enti locali; nel caso della grande città si possono realizzare aggregazioni o divisioni del tutto improprie e si possono accentuare problematicità legate ad un territorio.
Ribadisco il valore della continuità, includendovi tutto il percorso della scuola dell’obbligo, che deve avere durata almeno decennale. A questo proposito bisognerebbe sviluppare il rapporto tra la scuola e la formazione professionale, ma il discorso dovrebbe ampliarsi molto e tener conto delle grandi differenze che la formazione professionale presenta nelle varie Regioni. Non mi addentro, quindi, anche perché intendo avviarmi alla conclusione di questo lungo intervento, sviluppando ancora due ragionamenti.
Il primo riguarda la valutazione.
La valutazione è uno strumento necessario e positivo, che consente di mettere in valore quanto le scuole realizzano, se sono chiare le sue finalità e le modalità attraverso cui si realizzano. I governi di centro-destra hanno introdotto la valutazione partendo dal verso sbagliato, presentandola come strumento per individuare i “buoni” e i “cattivi” (docenti e dirigenti), a cui dare “premi” e “castighi”, quali riconoscimenti di ordine economico e progressioni di carriera. Oppure è stata proposta per fare graduatorie tra le varie scuole, dando premi a quelle migliori; graduatorie che avrebbero potuto orientare le scelte delle famiglie, costruendo una sorta di “vetrina” per la scelta del “prodotto scuola”.
Proprio questo approccio radicalmente sbagliato ha, a mio avviso, determinato una diffusa contrarietà alla valutazione, che invece, in relazione all’autonomia scolastica, costituisce uno strumento necessario per cogliere quali sono gli elementi di positività e criticità. Sulla base dei dati della ricerca OCSE-PISA, valutati in modo disaggregato, non per medie nazionali, sappiamo che esistono enormi divari di rendimenti tra una scuola e l’altra, anche nell’ambito di una stessa regione o di uno stesso territorio. La valutazione deve essere rivolta alla comunità scolastica, non sul singolo docente o sul singolo alunno, per comprendere quali siano gli elementi che favoriscono il conseguimento di risultati positivi in una determinata scuola. Questi vanno sempre considerati in termini di crescita relativa dei ragazzi, cioè valutando le diverse condizioni di partenza occorre verificare quale sia stata la crescita determinata dal percorso scolastico. Non ha alcun senso, infatti, confrontare, ad esempio, i rendimenti in termini assoluti dei ragazzi di un liceo classico del centro di Milano rispetto a quelli di un istituto professionale di un quartiere povero di Palermo.
La valutazione deve essere lo strumento per fare emergere gli elementi positivi e le difficoltà delle scuole, per introdurre correttivi e per diffondere le migliori esperienze. Obiettivo della valutazione non è premiare le eccellenze, ma renderle riproducibili per migliorare l’intero sistema. Per questo la valutazione riguarda il corpo collettivo della scuola e non i singoli. In una fase successiva sarà possibile procedere anche alla valutazione dei singoli, che non ritengo sia oggi prioritaria.
La seconda considerazione riguarda la dispersione scolastica e le bocciature. Mi soffermo, in particolare, sulle seconde, dal momento che sulla dispersione molti di voi hanno partecipato
e condotto progetti interessanti.
Sulle bocciature vi riferisco i risultati di una interessante ricerca, condotta dalla Regione Emilia-Romagna, basata sui dati dell’anagrafe degli studenti, che in questa regione è attiva dal 2007 e che consente di seguire i percorsi individuali degli studenti, non di basarsi soltanto su numeri e statistiche.
Si sono presi in considerazione, in una parte della ricerca, gli studenti che sono stati bocciati in prima superiore. Costituiscono il 13% della popolazione scolastica. Seguendo questi ragazzi nel percorso della scuola superiore si verifica che il 49% di questi abbandona la scuola prima del termine degli studi e il 27,3% subisce un’altra bocciatura. Dal primo insuccesso scolastico deriva che oltre il 77% di questi ragazzi incorre in un altro insuccesso. Questo significa che la pura ripetizione di un percorso scolastico, in modo del tutto simile al precedente, che ha determinato l’insuccesso, non porta ad alcun miglioramento; al contrario può indurre a demotivazione, ulteriore disinteresse per la scuola, aumentando la probabilità di ulteriori insuccessi.
Se vogliamo considerare questa situazione anche da un punto di vista economico, dato che la scuola è stata sottoposta spesso a tagli rilevanti, ogni bocciatura costa 8.000 euro, che non producono alcun beneficio in termini di crescita degli studenti.
Non sto teorizzando di abolire totalmente le bocciature, intorno alle quali andrebbe aperta una seria discussione nazionale, come sembra stiano facendo in Francia. Sostengo che bisogna investire da subito sulle attività di recupero e sulle innovazioni didattiche, rinviando la decisione all’interno di un cambiamento complessivo.
Ultima considerazione.
La scuola è una comunità educante che, accanto agli apprendimenti formali, deve sviluppare un’azione educativa verso una migliore relazionalità, verso una capacità di ascolto e di critica. Questa crescita è il risultato di un’azione educativa comunitaria, non di processi di apprendimento individuali.
La comunità scolastica è inserita e deve cooperare con la comunità locale: questo è il senso profondo della riforma che ha attribuito alle scuole un’autonomia costituzionalmente garantita.
Anche se, lo sappiamo, l’autonomia scolastica è ancora una riforma inattuata; pochi, infatti, ancora sono gli elementi che connotano una reale autonomia.
Le scuole, considerando la realtà dell’Emilia-Romagna, hanno avuto molto dal territorio: risorse, spazi, opportunità culturali e lavorative. So bene che in altre Regioni le scuole non hanno avuto nulla, anzi sono minacciate dai contesti sociali in cui sono inserite. In queste realtà la scuola è spesso l’unico luogo pubblico in cui le comunità possano riconoscersi.
In questi casi è la scuola che deve diventare il centro della comunità, illuogo dell’incontro, dove possono svolgersi attività culturali e sociali: penso all’utilizzo delle palestre, dei laboratori di informatica, delle biblioteche… naturalmente laddove sono presenti. Qui sì che i progetti di “scuola aperta” sono decisivi per offrire opportunità a tutti i cittadini. E le scuole vanno tenute realmente aperte.
Ma questo non ha nulla a che vedere con l’orario di lavoro degli insegnanti, che d:ve essere collegato alle ore di insegnamento e a tutte le attività di programmazione, di correzione compiti, di rapporti con le famiglie e con gli altri docenti, di formazione e di preparazione. Non bisogna assolutamente confondere le attività didattiche e formative della scuola rispetto alla possibilità di utilizzare i suoi spazi e le sue attrezzature per importanti attività sociali: una confusione inaccettabile, che squalifica ancora una volta il ruolo dei docenti.
Dal ragionamento che ho cercato di sviluppare in questo mio intervento vorrei giungere all’idea di bene comune, che è l’essenza della scuola, per il quale vale la pena impegnarci, appassionarci, arrabbiarci. Un bene da salvaguardare, non rinunciando mai ad esso.
Fino ad ora chi opera nella scuola non “ha mollato”. È ora che tutto il Paese metta al centro della propria attenzione e di quella del Governo la scuola pubblica, anche per sviluppare quella riflessione comune e quelle condivisioni delle quali il “cantiere scuola” di Terrasini mi sembra un ottimo esempio.






